Descrizione
La statua, lavorata quasi interamente anche nella parte tergale, rappresenta un angelo àptero (privo di ali) in piedi, con una lunga veste ed un mantello, entrambi finemente decorati negli orli da motivi geometrici; col braccio destro, in parte mutilo, la figura sorregge l'otre di una cornamusa; similmente perduti sono la mano destra, la canna diteggiabile che da quella veniva regolata e il boccaglio che doveva trovarsi vicino alla bocca dell'angelo. Questi, con i capelli riccioluti fermati da una fascetta, accenna un sorriso.
Notizie storico critiche
L'opera fa parte di una serie di quattro Angeli musicanti proveniente dal giardino della villa medicea di Castello, cui si aggiungono un quinto, già nel palazzo della Crocetta (oggi sede del Museo Archeologico Nazionale), e un sesto, trasformato in Re David, attualmente al Bode Museum di Berlino. Le sei statue furono spostate nelle diverse sedi a seguito della demolizione dell'antica facciata di Santa Maria del Fiore, nel 1586. I documenti (Poggi 1909), se non chiariscono quale fosse la loro collocazione originaria all'interno della complessa decorazione, attestano però che la serie era composta inizialmente da nove angeli, i quali furono eseguiti negli anni 1383-1388 da Jacopo di Piero Guidi (autore di quattro statue), Luca di Giovanni da Siena (tre) e Piero di Giovanni Tedesco (due).
Dopo una prima attribuzione ad Andrea Pisano (Perkins 1864), l'Angelo con la cornamusa fu avvicinato dal Rathe (1910) a quelli recanti i cimbali e la viella, suggerendone quale autore Jacopo di Piero Guidi. Kauffmann (1926), avvalendosi dei documenti resi noti dal Poggi e ravvisando alcune innegabili differenze stilistiche, preferì separarlo da quei due ed accostarlo piuttosto all'Angelo con la ribeca: l'autore di entrambi sarebbe stato, a suo parere, Luca di Giovanni da Siena. Tale ipotesi, sebbene accolta da Wundram (1968), venne rifiutata da Brunetti (1969) che, notando alcune tangenze formali con le figure di Lorenzo di Giovanni d'Ambrogio nella Porta della Mandorla, documentate al 1396-1397, propose il nome di questo artefice. L'ipotesi non ha trovato seguito e Kreytenberg (1979, 1981), sottolineando anche la difficoltà di superare il tono esplicito dei documenti, ha rilanciato convincentemente la paternità di Luca di Giovanni da Siena. La formazione senese di questo artista, ancora scarsamente documentato e poco conosciuto, si palesa del resto nell'eleganza ritmica delle pieghe ondulari del panneggio, ritornanti e carezzevoli, che sembrano riecheggiare il linearismo prezioso e leggiadro di Simone Martini, mai venuto meno a Siena e modello anche per le altre arti (scultura ed oreficeria).
Relazione iconografico religiosa
La questione della precisa collocazione di questa opera e degli altri Angeli musicanti all'interno della complessa decorazione della facciata del Duomo non è stata ancora risolta. Qualora si accertasse che gli angeli a cui erano destinate due paia di ali lavorate da Jacopo di Piero Guidi, e pagategli dall'Opera l'11 marzo 1384 («pro suo salario et remuneratione sui laboris manufatture duarum par alarum angelorum positorum supra ianuam principalem dicte ecclesie»: Poggi 1909), siano da riconoscere in due elementi della serie, si potrebbe ritenere con una certa fondatezza che gli Angeli musicanti corredassero l'apparato figurativo del portale centrale. La lunetta di questo – si ricorderà – era stata decorata durante la fase arnolfiana (1296-1310) con un gruppo scultoreo raffigurante la Madonna col Bambino fra santa Reparata e san Zanobi. In tal caso gli angeli musici avrebbero fatto da corona a tale immagine di "Maestà", esaltandola con il richiamo della musica celeste; e, non ultimo, alludendo anche alla fama goduta in tutta Europa dal duomo fiorentino, celebrato fra Tre e Quattrocento per l'eccellenza raggiunta dai suoi musici e cantori.
E' probabile, infine, che una raffigurazione così puntuale degli strumenti degli Angeli musicanti intendesse dar forma ad alcuni versi del salmo 150, un inno giubilante in cui si invita a lodare Dio «in sono tubae», «in psalteryo et cythara», «in chordis et organo», «in cymbalis». Si tratta dello stesso salmo che, qualche decennio più tardi, Luca della Robbia espliciterà figurativamente nella sua Cantoria, e non è da escludere che egli – in una certa misura – abbia tenuto in mente la serie trecentesca intorno al portale maggiore.