Descrizione
Nella parte superiore della vetrata (la quarta da destra, in basso, nella tribuna di S. Antonio Abate) è raffigurato l' Evangelista Matteo, assiso in trono sotto un baldacchino esagonale di forme tardo gotiche. Il Santo, con la testa lievemente reclinata da un lato verso il piccolo angelo in volo che lo affianca (con veste verde e rossa), tiene un libro nella sinistra e la penna nella mano destra; indossa un ampio mantello rosso decorato da grandi fiori trilobati azzurri e gialli che lascia appena intravedere le forme corporee. Nel registro inferiore sono rappresentati frontalmente ed a figura intera, a sinistra una santa (con veste azzurra, manto rosso e velo bianco) che tiene nella mano destra uno scettro gigliato ed è lievemente rivolta verso il santo accanto. Quest' ultimo (che indossa una veste gialla) sorregge con la destra uno scettro analogo a quello del personaggio a fianco. La composizione è bordata da una cornice in cui si alternano motivi vegeto-floreali policromi.
Notizie storico critiche
La vetrata fu commissionata il 31 ottobre 1441 a Bernardo di Francesco; nel documento di allogagione si precisava che Bernardo di Francesco avrebbe dovuto fare tutte le finestre delle cappelle situate nella Tribuna di S. Antonio eccetto quella della cappella centrale intitolata allo stesso santo, affidata ed eseguita, infatti, da Guido da Niccolò e compagni nel 1442-43. Lorenzo Ghiberti fornì il disegno e in data 5 gennaio 1442 venne pagato con lire sedici. Il 5 giugno 1442 è registrato l’ultimo pagamento a Bernardo di Francesco per la finestra di S. Matteo, probabilmente già terminata. Nel 1517 si registra un primo intervento di restauro ad opera di Niccolò di Giovanni di Paolo che attese a piccoli lavori di rifacimento anche in altre vetrate della cattedrale. L’opera in esame, al pari di quasi tutte le altre vetrate delle tribune è stata oggetto di scarsa attenzione da parte della critica che, in genere, si è limitata ad un breve giudizio complessivo su di esse. Fu il Poggi, nel 1909, il primo studioso ad occuparsi separatamente di tutte le vetrate la cattedrale fiorentina con la pubblicazione dei documenti ad esse relativi da lui ordinati e riassunti poi in brevi commenti su ogni singola opera. Un’analisi più approfondita che tenesse conto dei dati stilistici e tecnici, come pure delle personalità dei diversi maestri vetrai fu tentata nel 1938 dalla Van Strelen, il cui giudizio critico fu però in parte falsato dal cattivo stato di conservazione in cui si trovano le opere; in particolare, per la vetrata di San Matteo, la studiosa dopo essersi dilungata nella descrizione dei colori, afferma che i volti dei santi possono essere stati dipinti dal vetraio Bernardo di Francesco e non dal Ghiberti senza accennare ai notevoli riferimenti visibili in essi. Il Salmi cita la vetrata (assieme a quella vicina di S. Tommaso) per esemplificare i probabili rapporti tra Ghiberti e Giovanni dal Ponte che, secondo lo studioso, si manifestano in maniera più o meno evidente (in relazione, forse, alla diversa fedeltà dei traduttori) in tutte le vetrate delle cappelle delle tribune.
Relazione iconografico religiosa
Le 15 finestre inferiori (una per cappella) delle tribune sono suddivise in tre campi: in alto sta il santo titolare della cappella, e in basso sono raffigurati santi o personaggi collegati al santo principale da appropriati legami, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.
Nella presente vetrata è raffigurato San Matteo evangelista in alto e San Ladislao e Sant’Elisabetta d’Ungheria in basso.
Matteo fu uno degli apostoli, autore secondo la tradizione del primo dei Vangeli. Era esattore delle imposte a Cafarnao; un giorno, mentre sedeva al banco della gabella, Cristo lo chiamò perché lo seguisse. Come evangelista, ha come attributo una figura alata, simile a un angelo, uno dei quattro esseri viventi dell’Apocalisse. Talora questa figura appare in atto di dettare, mentre Matteo scrive. Egli reca un libro, penna e calamaio, attributi dello scrittore. Come figura di apostolo tiene in mano la borsa dei denari, che ricorda la sua precedente attività. Secondo la leggenda, fu condannato alla decapitazione, e può quindi recare un’accetta o un’alabarda. Tra le molte iscrizioni che possono accompagnare la sua immagine vi sono: «Sanctam ecclesiam catholicam; sanctorum communionem» dal Credo degli Apostoli.
Ladislao, figlio di Bela, re d’Ungheria, nacque l’anno 1031, ma essendo il trono elettivo non aveva alcun diritto alla successione. Ben presto però le bellissime qualità e la integerrima sua vita gli meritarono l’elezione a re e un governo secondo il cuore e il volere di Dio. Appena ebbe nelle sue mani le redini del potere si diede con meravigliosa alacrità a ripurgare tutta la legislazione, riformare i costumi, rinnovare tribunali, rialzare la pubblica moralità, calpestata da ogni classe di cittadini. L’intento che guidava il santo monarca era quello di fare che la religione divenisse cardine della legislazione e base di tutto il benessere sociale. Per questo lottò, combatté, soffrì, ma alla fine trionfò, rendendo il suo popolo profondamente cristiano e degno di essere additato a modello di ogni altro. Era casto, pietoso, informato ai precetti evangelici; detestava l’avarizia, l’ambizione e stimava perduto quel giorno nel quale non avesse fatto del bene, o impedito del male. La sobrietà che usava nei cibi e nelle bevande facevano stupire i suoi cortigiani che si domandavano come mai il loro re, benché gli venissero preparati prelibatissimi pranzi, rinunziasse a tutto cibandosi spesso di legumi e bevendo acqua pura. Sempre occupato a disimpegnare le cose dello stato, trovava tuttavia le ore per le preghiere e per le buone letture; nella sua grande carità non cessava di abbellire chiese, sollevare le miserie della sua nazione, proscrivendo i trasgressori delle leggi senza accettazione di persone. La giustizia, l’imparzialità, l’intransigenza e una titanica volontà unite all’amore evangelico, resero Ladislao modello di re. Riparò nel suo regno i guasti causati dalle innumerevoli ribellioni e da molte eresie, formando un popolo unito nella fede, sottomesso in tutto alla Sede Apostolica, popolo che assieme al suo re, rimase d’indelebile memoria ai posteri. Intanto i Turchi, orgogliosi della conquista dei luoghi santi, minacciavano l’Europa e opprimevano crudelmente i fedeli caduti nelle loro mani. Dall’Europa fu lanciato il grido della liberazione dei fratelli, e i principi che pronti risposero all’eco non tardarono ad allestire eserciti a questo nobile fine. Anche il re Ladislao preparò le sue milizie, e già tutto era pronto quando cadde repentinamente ammalato. Subito gli furono prodigate le cure da parte dei medici del caso, ma egli sapendo ehe la divina misericordia ormai lo voleva al cielo, si munì dei conforti spirituali della Chiesa. Contento di avere combattuto e sofferto per la causa di Dio, con l’anima tranquilla, con gli occhi fissi al cielo placidamente spirava il 30 luglio dell’anno 1096.
Elisabetta d’Ungheria fu una principessa della dinastia ungherese degli Arpad. All’età di quattordici anni andò sposa a Ludovico IV, langravio di Turingia, che sei anni dopo morì. Elisabetta entrò allora nell’ordine francescano e dedicò i suoi ultimi anni di vita ai malati e ai bisognosi della città di Marburgo, dove morì. Il culto di questa santa fu popolare soprattutto in Germania e la sua immagine è frequente soprattutto nell’arte nordeuropea. Per i francescani ella è il simbolo della carità femminile; compare nei dipinti eseguiti dai pittori italiani per quest’ordine monastico. Indossa l’abito delle terziarie francescane; a volte ha il capo ornato di una corona, indice della sua condizione regale; la corona può essere triplice, forse in allusione ai suoi tre stati di vergine, sposa e vedova. In alternativa Elisabetta può invece vestire ricche vesti principesche, con un manto foderato di pelliccia. Il modello di una chiesa che regge in una mano si riferisce alla città di Marburgo. Le rose, per lo più raffigurate in grembo alla santa, sono il suo attributo più frequente. Narra la leggenda che un giorno il marito la incontrò in strada mentre si recava a fare la carità ai poveri: nel grembiule portava dei pani, ma quando egli lo aprì per vedere cosa contenesse vi trovò delle rose. Elisabetta è raffigurata mentre assiste i malati, soprattutto quelli afflitti da lebbra o da altre malattie cutanee. Secondo un’altra leggenda che riguarda le sue opere di carità, occasionalmente raffigurata nell’arte rinascimentale tedesca, la santa accolse nel proprio letto un fanciullo lebbroso. Il marito, rientrato a casa, strappò con rabbia le coperte dal letto: il fanciullo aveva assunto le sembianze del Bambino Gesù. Nelle immagini devozionali Elisabetta è circondata da mendicanti e storpi che attendono di essere assistiti.