Descrizione
L'opera è installata tra la coppia di colonne a destra dell'altare maggiore. Ha una struttura innovativa per l'epoca che si compone di diversi elementi scultorei e architettonici sovrapposti eseguiti con varietà di tecniche e materiali. Spicca in particolar modo il feretro, in bronzo dorato, che aggetta sul sarcofago sottostante. Dal basso verso l'alto: a terra è uno zoccolo marmoreo con modanature e con fregio mediano a Cherubini reggifestone tra nastri. Al di sopra, in marmo, è un rilievo raffigurante tre nicchie comprese tra lesene corinzie scanalate, sulle quali poggia una cornice modanata. Le nicchie sono centinate, con calotta a valva di conchiglia; all'interno, sono le personificazioni ,muliebri delle tre virtù Teologali: a destra la Speranza, alata, con mani giunte, rivolta alla sua destra; al centro, la Carità, con capelli raccolti, una cornucopia fiorita nella sinistra e un vasetto fiammeggiante nella destra; infine, a sinistra, la Fede, con i capelli sciolti mossi dal vento, offre alla sua sinistra un calice e con la sinistra fa il numero "Tre" con le dita. Nel registro superiore è il sarcofago marmoreo; esso è sostenuto da quattro mensoloni scolpiti a foglia d'acanto, a ricciolo e modanati; intervallati, a loro volta, da tre specchiature recanti in bassorilievo: a destra e a sinistra, lo stemma di Baldassarre Cossa, al centro quello pontificio. La cassa del sarcofago è quadrangolare; la parte inferiore vede in corrispondenza degli stemmi tre cassettoni con rosoni in altorilievo, mentre in alzato presenta uno zoccolo e una cornice sommitale modanate a gradini. Al centro è ornato in bassorilievo da una targa, con epigrafe in capitali campite in nero, e tenuta per i cartocci laterali da due angeli dolenti, seduti. Sul sarcofago poggia, su due piedistalli marmorei in forma di marzocco, il la lettiga con il ritratto del defunto. Il lettino è ricoperto da un sontuoso drappo lavorato a fingere un damasco a motivi vegetali di melograni, cui si sovrappone un cuscino, parzialmente dorato, con gallone e nappe. Ancora in bronzo, al di sopra, appena inclinata, è l'effigie del feretro: in sontuosi abiti cardinalizi, con mitria, guanti e piviale riccamente elaborati, egli ha la testa abbandonata verso l'osservatore, e il volto, ritratto con vivo realismo è di un cinquantenne robusto e senza barba, e con espressione turbata ma immersa in un sonno profondo. Al di sopra è un baldacchino in marmo, aperto e tenuto in apice e alle colonne laterali da borchie dorate, con frange oro e ornamenti dipinti in rosso e in nero nell'orlo esterno (fiori) e nell'interno (finto damasco a melagrane). Alle spalle del feretro e del baldacchino è immaginato in bassorilievo un dossale segnato da una cornice: in basso presenta tre specchiature, in alto è una nicchia a valva di conchiglia contenente il busto della Madonna sostenente il Bambino.
Notizie storico critiche
Baldassarre Coscia fu un importante ecclesiastico di origini partenopee del primo Quattrocento, protagonista dei conflitti risolutivi del cosiddetto “scisma d’occidente”, che lo videro prima eletto al soglio pontificio dal conclave di Bologna del 1410 col nome di Giovanni XXIII, poi deposto dal Concilio di Costanza del 1415 e quindi fatto prigioniero. Scarcerato su cauzione da Giovanni “Bicci” dei Medici, fu quindi invitato dal figlio di lui, Cosimo, a trasferirsi a Firenze, e lo stesso Cosimo ottenne dal papa riconosciuto come legittimo, Martino V, di restituire al Coscia la dignità del titolo cardinalizio in segno di riconciliazione. Il cardinale morì pochi anni dopo, il 22 dicembre del 1419, e dalle notizie documentarie superstiti apprendiamo che egli avesse espresso nel suo testamento la volontà di essere sepolto in una delle chiese di Firenze, probabilmente già con preferenza per il Battistero, al quale infatti aveva fatto in vita cospicue donazioni: la preziosissima reliquia del dito indice del Battista e 200 fiorini per il restauro di alcune oreficerie. Aveva anche depositato presso l’Opera di San Giovanni la somma necessaria alla realizzazione del sepolcro e nominato suoi esecutori Giovanni (Bicci) de' Medici, Bartolomeo Valori, Niccolò da Uzzano e Vieri Guadagni. I consoli dell’Arte di Calimala, che aveva il patronato sul tempio, deliberarono di dare avvio ai lavori il 9 gennaio del 1422, specificando però che si doveva, sì, realizzare una sepoltura, ma “breve et honestissima” e non una cappella “per non occupare l’adito della chiesa”, e perché già sufficientemente grande era l’onore di esser sepolti in quel tempio. La commissione fu affidata a Donatello, che si avvalse poi della collaborazione di Michelozzo, (i due artisti nel 1425 avrebbero costituito una società) e di Pagno di Lapo. I lavori dovettero avanzare senza interruzioni perché nel 1425 Cosimo dei Medici e Bartolomeo Valori fecero richiesta all'Opera di 400 fiorini lì depositati, necessari a liquidare quanto già realizzato fin a quel momento. E sempre dai documenti apprendiamo che i lavori ancora proseguivano nel 1427, quando nella dichiarazione dei redditi di Donatello e Michelozzo del 12 luglio fu registrato ch’essi avevano ricevuto 600 degli 800 fiorini stabiliti dal contratto e fu autorizzata una vendita di alcuni marmi destinati al monumento. Quindi, tra l’estate del 1427 e l’inizio del successivo la tomba dovette, quasi certamente, esser stata conclusa, come sembra esser riprovato anche all’interruzione nel 1428 da parte di Pagno di Lapo del rapporto di collaborazione con Donatello. Circa invece le fasi di progettazione e di avvio dei lavori, importante è la notizia che nel 1424 papa Martino V avesse chiesto che nell’epigrafe del monumento fosse eliminato ogni riferimento al titolo di papa (offerta che il governo fiorentino respinse). Questo lascia supporre come a questa data il monumento si trovasse a uno stato già molto avanzato, o che quantomeno il suo progetto fosse noto e che quindi esso fosse stato precocemente elaborato, ipoteticamente, già tra il 1422 e il 1423, e comunque prima del 1425, quando Michelozzo entrò in società con Donatello e iniziò a collaborare con lui al sepolcro, che, come s’è visto nei documenti citati, era già stato per metà pagato. Una riprova indiretta di questa datazione precoce, quantomeno per la sua progettazione, è data dalle somiglianze tra questo monumento funebre e quello per Tommaso Mocenigo, in Santi Giovanni e Paolo a Venezia, che è datato 1423 e firmato dai fiorentini Giovanni Martino da Fiesole e da Pietro di Niccolò Lamberti
La critica ha molto discusso circa l’attribuzione delle singole parti all’uno o all’altro maestro, ora sostenendo il maggior ruolo rivestito da Donatello rispetto a Michelozzo, ora invece leggendo una partecipazione concertata di entrambe le mani: si può ragionevolmente supporre, per analisi stilistica e per le notizie d’archivio citate, che a Donato si debba attribuire l’invenzione dell’intero monumento, nonché l’esecuzione del feretro con il corpo del Coscia (anche se Michelozzo poté averlo aiutato nella fusione), così delle tre Virtù, che tanto ricordano le sue bronzee per il Battistero di Siena, nonché della cassa con l’epigrafe; mentre la lunetta con la Madonna col Bambino appare stilisticamente più vicina alla maniera di Michelozzo scultore, perché di una classicità più severa e algida e il fregio della zoccolatura è più difficilmente riferibile alla mano dell’uno o dell’altro maestro.
Relazione iconografico religiosa
Il sepolcro Coscia è stato definito “il primo monumento funebre del Rinascimento” e rappresenta l’evoluzione dei monumenti funebri sia gotici (come poteva esser di confronto quello del vescovo Orso in Santa Maria del Fiore), che dell’antichità classica (come quei sarcofagi romani riutilizzati nel medioevo, un tempo visibili proprio nell’area del Battistero). Il sepolcro fu preso a modello da Bernardo Rossellino per il suo celeberrimo monumento funebre per Leonardo Bruni, in Santa Croce; e va anche citato, nello stesso terzo decennio del secolo e a opera dei medesimi Donatello e Michelozzo, la realizzazione di un altro sepolcro a parete in tutto simile a questo del Coscia: quello per il cardinal Brancaccio, nella chiesa di Sant’Angelo al Nilo, a Napoli.
L’iconografia del monumento è attentamente studiata: l’immaginazione complessiva è quella di una sontuosa esposizione del defunto, ma se se ne osserva con attenzione il volto questo appare in uno stato di sonno, più che di morte, per evidente allusione alla risurrezione, cui rimanda anche l’idea della tenda che si apre, come per svegliarlo dal giaciglio nella sua camera facendovi entrare la luce. All’eternità e alla resurrezione alludono anche le melagrane che decorano i finti tessuti; e così l’oro del ritratto stesso rimanda allo splendore del corpo glorioso risorto alla fine dei tempi. Il dossale sottostante, invece, richiama le virtù che sostennero e condussero la vita del Coscia, quasi a giustificare sia gli stemmi, che il contenuto dell’epigrafe, che lo sfavillio dell’oro e dei finti tessuti di marmo della parte superiore. E alle sue virtù spirituali rimanda anche il fregio inferiore, dove il motivo classico dei genietti/angeli reggifestone, ispirato ai sarcofagi antichi, è utilizzato in chiave cristiana per rappresentare la natura angelica e spiritualmente “fruttifera” del defunto.